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LA TRADIZIONE E L'INSEGNAMENTO ORIENTALI

 

LA TRADIZIONE E L'INSEGNAMENTO ORIENTALI

TESTIMONIATI NELLA PRASSI DA UN OCCIDENTALE

 

 

              La mia relazione è semplicemente un tentativo di riflessione sull'esercizio della paternità spirituale così come è vissuto nella nostra piccola comunità, con tutte le limitazioni che una realtà particolare comporta, ma anche con il vigore delle persuasioni del cuore che un'esperienza vissuta forgia.

              Credo sia opportuno premettere qualche parola di presentazione. La comunità, di tipo monastico, è sorta una ventina d'anni fa sulla scia di quel rinnovamento portato dal Concilio Vaticano II, che ha permesso alla coscienza ecclesiale un recupero di autenticità e di apertura insieme. Per noi tale spirito di autenticità e di apertura ha significato un fondarsi più cosciente sulla Parola di Dio secondo l'intelligenza viva ed amorosa della chiesa, un mettersi alla scuola dei Ss. Padri, in particolare accedendo alle ricchezze dei Padri Orientali, come suggerisce lo stesso Concilio (cfr. UR, 15), al fine di imparare il modo di rendere viva ed attuale la Scrittura nella personale esperienza di ogni giorno.

              Quattro sono i cardini su cui si regge la comunità: preghiera, Scrittura e Padri, attenzione interiore, vita di fraternità. Alla preghiera è finalizzata tutta l'opera dell'ascesi; mentre il cuore si unifica nella tensione verso Dio, nella memoria della sua presenza, si apre alla compassione per tutti gli uomini. Le parole della Scrittura, sotto la guida dei Padri, rivelano il mondo dello Spirito ed insegnano a discernere in ogni situazione ciò che favorisce il progresso dell'anima sulla via di Dio. L'attenzione a se stessi (cfr. Deut. 15,9), unita all'invocazione al Signore Gesù Cristo perché purifichi l'atmosfera del cuore e lo renda capace di perdono e di comunione, costituisce la vera fatica ascetica del vivere quotidiano. Il tutto vissuto tra fratelli, dove ognuno può essere guida e consigliere dell'altro e dove ognuno è responsabile del tenore di vita dell'intera comunità.

              Per parecchi anni la comunità si è formata come in solitudine. Un numero ristretto di persone e pochi amici che di tanto in tanto venivano a far visita, attratti anche dalla bellezza e dalla quiete del luogo. Ancora meno quelli che mostravano interesse per ciò che si veniva elaborando e formando. Poco a poco, con gli anni, senza alcuna ricerca o scelta da parte della comunità, in modo spontaneo, il flusso delle persone che salivano al monastero è andato via via crescendo. Soprattutto - ed è questo il punto che attirerà la nostra attenzione nel seguito - si sono differenziate e precisate le richieste delle varie persone, si è venuto man mano delineando un certo stile di accoglienza e di rapporti, stile che è da porre in stretta relazione con l'acquistata identità interiore e una certa maturazione spirituale della comunità stessa.

              La comunità è passata dall'iniziale tentativo di privilegiare la vita comune portando tutti a una specie di comun denominatore all'attuale orientamento che dà molto più spazio alle diversità dei singoli fratelli in armonia con la vita di fraternità. In questo senso si è passati dal voler inseguire una idealità astratta ad una maggiore concretezza, da un certo schematismo di elementi tradizionali  ad una maggiore libertà e soprattutto guadagnando in autenticità. Il rispetto per la personalità di ciascuno ha comportato l'accoglimento del suo ritmo di crescita, delle sue risorse, delle sue energie per attuarlo, della sua sensibilità che reagisce a certi stimoli piuttosto che ad altri, del suo specifico apporto alla vitalità della comunità nel suo insieme. E tutto ciò è diventato per la comunità come un assunto strutturale che la connota nella sua stessa costituzione, accolto come un dono del Signore. Evidentemente si tratta sempre di essere in cammino, di rispondere alle sollecitazioni ed alle sfide che via via si fanno più determinate; tuttavia,  benché si sia costantemente alla ricerca di un equilibrio e di un'armonia sempre rinnovata, certi elementi restano come acquisiti. Probabilmente ciò è dovuto al fatto di essere una piccola comunità e non credo sarebbe stato possibile in una grande comunità.

              Ho premesso queste brevi annotazioni per meglio mettere in risalto il clima di accoglienza che scaturisce da questo sentimento di grande rispetto per la persona, per ogni persona, comunque si presenti, qualunque cosa desideri, qualsiasi sia il suo bisogno.

 

 

 

STILE DI ACCOGLIENZA.

 

 

              La comunità non si sente deputata ad alcun compito particolare nei confronti di quanti vengono al monastero, come se dovesse in questo trovare qualche verifica del suo eventuale carisma. Vive semplicemente il 'compimento' del regno di Dio nel fatto stesso di accoglierle e camminare insieme, di suscitare e stabilire comunione. La natura particolare poi del camminare insieme o della comunione realizzata dipende dalle rispettive esigenze delle persone e dalla capacità di responsabilità del fratello che le accoglie. In tale senso   l'esercizio della paternità spirituale presenta oggi molte più sfumature che non nel passato, dovendosi adattare alle esigenze di ciascuno, come illustrerò più avanti.

              Attorno a tre atteggiamenti del cuore si può vedere specificato lo stile di accoglienza della comunità: la disponibilità, l'accondiscendenza e la responsabilità.

 

 

   DISPONIBILITA'.

 

              Anzitutto una disponibilità che si potrebbe chiamare 'di fondo' : lasciare  un reale spazio alla convinzione che il Signore accoglie tutti, ognuno per se stesso, nella sua specificità, in tutta misericordia. Persone e cuori non bisognerebbe mai sacrificarli, sia pure con le più nobili intenzioni, a progetti spirituali particolari, sempre troppo terreni.

              La Parola del Signore ci dà coscienza di essere servi, quindi non siamo noi ad avere in proprietà o in affido i nostri fratelli. Sono piuttosto loro a possederci, noi apparteniamo a loro (cfr. 1 Cor. 3,21-23; 2 Cor 4,5). Ogni loro richiesta, espressa o inespressa, suona come un appello per noi: l'appello di Dio che vuole 'compiere' la sua creazione. Anche quel 'dare la vita', di cui ci fa comando il Signore per ritrovarla, non va compreso ponendo l'accento sul noi che vogliamo darla, ma sul dinamismo che ci consente di darla, per la potenza del suo Spirito. Dare la vita significa allora rispondere al desiderio di Dio presente in ogni uomo che chiede di essere ascoltato ed amato perché la vita si espanda in pienezza e si realizzi il regno di Dio tra noi. Ogni desiderio di comunione realizzato è infatti presenza del regno di Dio.

Di qui la preoccupazione di non ostacolare, ma di favorire in tutti i modi, secondo Dio, tale dinamica inscritta nei cuori. Fin dalle piccole cose, che all'anima assetata appaiono come segnali significativi. Per esempio, l'assenza di clausure, di orari rigidi, di formalismi nell'accoglienza, viene percepita come offerta di disponibilità che mette a proprio agio soprattutto chi, come tanto spesso oggi accade, non ha dimestichezza con gli ambienti religiosi o ne è intimorito. Per usare un'immagine, il monastero visto come una specie di 'pronto-soccorso' dove il diritto di accedere è dato dall'urgenza del proprio dolore. E forse è così che impariamo ad accogliere Cristo povero e ammalato nascosto in ognuno.

              In concreto, disponibilità significa 'dare tutto il tempo a', 'avere sempre tempo per'; significa far fiorire da un incontro cercato od occasionale, timoroso, puntuale, un rapporto personale pieno di calore perché dare il proprio tempo significa dare se stessi.  La persona ha bisogno di essere accolta integralmente e concretamente. La disponibilità è fatta anche di sincero interesse per lei, di attenzione specifica alla sua situazione tanto da riportare l'impressione, sia da parte di chi accoglie come di chi è accolto, che ciò di cui si tratta sia l'unica cosa importante del momento. E quando gli incontri si ripetono a frequenza regolare la disponibilità si trasforma in un vero e proprio farsi carico, in legame spirituale, in amicizia, nella coscienza di partecipare a un grande dono divino che dilata il cuore e rigenera le energie dell'anima.

              Prima ancora che di disponibilità ad una persona si tratta in verità di disponibilità alla 'sinergia' con Dio che continuamente opera nei cuori e compie i suoi voleri di salvezza anche là dove nemmeno si riesce ad intuirne la presenza. Per questo la disponibilità è prima di tutto una forma di affidamento a Dio, capace per ciò stesso di suscitare a sua volta il medesimo tipo di affidamento nelle anime che, attraverso la loro guida spirituale, ritrovano se stesse e si aprono a Dio.

              Tenendo anche conto dell'uso ormai abituale del telefono, il pericolo di ritrovarsi ingolfati o come assorbiti è un fatto reale che richiede una continua vigilanza, di cui non è facile essere  sempre all'altezza.

 

 

  ACCONDISCENDENZA.

 

              S. Paolo, scrivendo a Tito, invita i credenti ad essere " mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini " (Tit. 3,2), eco della parola del Signore " imparate da me, che sono mite ed umile di cuore " (Mt. 11,29).

              Nella guida spirituale tale mansuetudine si fa immagine dell'accondiscendenza di Dio verso i suoi figli che sempre accompagna e conduce con amorevolezza. Si tratta di un'accondiscendenza paterna, non indulgente, non permissiva, per una crescita nella libertà. Accondiscendenza che si traduce essenzialmente in uno sguardo costante di benevolenza, di pazienza e di tenerezza, avvertito immediatamente dalla persona che così non si sente mai giudicata, soppesata, valutata. In effetti la vera speranza che parla al cuore è quella di accorgersi che Dio c'è ed è presente se si sente che è Lui che dà ad un uomo la capacità di usarci tenerezza, di essere buono con noi. Questo conforta più dell'affetto istintivo tra le creature umane in quanto si sperimenta la gratuità del rapporto, perché si riconosce  che il dono ricevuto non risponde a precondizioni o a dati meriti, allarga il cuore alla riconoscenza e lo apre alla percezione della presenza di Dio, pur senza che si sia parlato esplicitamente di Dio.

              L'esperienza poi insegna che diventare più amorevoli significa diventare più veri e di conseguenza permettere di vedere la realtà più in verità. Nella visione cristiana la verità si coniuga con l'amore, la lucidità con la bontà. L'esperienza di questo fatto è liberante per l'anima e consente di schiudere il livello psicologico alla dimensione spirituale, superando quel certo psicologismo che costruisce sulla sabbia. E' come un accedere al mistero del cuore umano, al mistero delle sue origini divine. Allora la guida spirituale non è più avvertita come un estraneo, la sua voce non risuona dal di fuori, da distante; le sue parole sono sentite vere, sebbene il cuore debba come faticare ancora per un certo tempo per sentirle sue. Ma è appunto questo il cammino dell'obbedienza e della libertà, riscoperte con gusto e slanci nuovi.

              All'accondiscendenza è legato anche il problema del linguaggio. Molto spesso i fedeli si lamentano del linguaggio astratto, lontano e separato dalla vita, moralistico, clericale, nella presentazione della fede da parte della chiesa. Si è come inceppata la mediazione tra la fede custodita e le esigenze dei cuori, mediazione che costituisce il terreno specifico dell'azione pastorale della chiesa. Si ripetono cose vere senza la persuasione della verità, cose rivelate senza la potenza di una rivelazione, cose di vita senza trasmettere vita. Lo stesso linguaggio dei vari gruppi o movimenti ecclesiali tende a volte a schematizzarsi, forse per esigenze di aggregazione, non certo di comunione, e quindi a scapito della ricchezza e del contenuto della fede.  Si ha l'impressione a volte che perfino le cosiddette 'scuole della Parola' risultino come troppo colte, come fini a se stesse. Se ci è stato ingiunto di custodire integri (cfr. 1 Tim. 6,14) e di praticare i comandamenti di Dio, via della salvezza, quindi via della vita, non possiamo allora nemmeno esimerci dal compito di far parlare il comandamento al cuore dell'uomo sia per amore della Parola di Dio che per amore dell'uomo al quale essa è indirizzata.

              Lo spirito di accondiscendenza, facilitato dal rapporto personale instaurato, tende a rendere il linguaggio semplice, immediato e concreto, nello sforzo di ricollegare l'annuncio cristiano alle esigenze del cuore, badando a che l'immediatezza sia espressione del senso di concretezza e non effetto di strategie psicologiche, rivestite di spiritualità. Ciò che permette un simile ricollegamento è illustrato da un passo di s. Paolo, forse troppo sottovalutato: " Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari " (1 Tess. 2,8). Le domande da porsi sono le seguenti: è  possibile dare il vangelo ad una persona senza che questa ci diventi cara? Ed è possibile che questa ci diventi cara senza che in qualche modo senta di esserlo diventata?  Il senso dell'accondiscendenza per quanto riguarda il linguaggio sta tutto qui. Solo a patto che una persona ci diventi cara, il nostro linguaggio saprà essere concreto, capace di dare parola ai suoi disagi, di offrire una rivelazione vissuta e vivente che suscita una risposta, una conversione, un espandersi e un lasciarsi prendere da quella nostalgia di Dio che già portiamo racchiusa dentro di noi.

 

 

  RESPONSABILITA'

 

              La dinamica interiore dell'accoglienza si risolve in assunzione di responsabilità. E per illustrare il senso stesso del tipo di responsabilità implicata mi rifaccio alla spiegazione di un passo evangelico che una persona mi suggeriva. In Luca 10,2 leggiamo : «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe ». E' come se Gesù ci invitasse a pregare Dio perché continui a farci grazia di Sé attraverso rapporti privilegiati con persone 'scelte'. Se esistono uomini che vivono solo per Dio, uomini che Dio fa tutti suoi, allora anche tutti noi possiamo ritornare alla speranza ed alla voglia di ridiventare suoi. Il privilegio della scelta è per la persona ma non è finalizzato alla persona, bensì alla chiesa.

              La responsabilità comporta quindi ,anzitutto, la coscienza di un mistero, quello dell'edificazione del corpo di Cristo, che è la chiesa. E la chiesa è comunione in missione di comunione nella storia. Nessun incontro è privo di un significato segreto se gli occhi del cuore sono desti a cogliere l'opera di Dio che vuole condurre tutti e ciascuno a salvezza.  Viene riferita al Signore Gesù l'espressione: «Ecco, io vengo a fare la tua volontà ». Si tratta di un fare che non procede tanto dalla volontà, bensì dalla coscienza e dal vissuto d'intimità col Padre. Pure per noi vale lo stesso dinamismo: la responsabilità nei confronti dei fratelli non procede tanto dal fatto di dover svolgere un dato compito, quanto dal fatto di compierlo perché attratti da questo grande mistero di riconciliazione in atto nella storia (cfr. Ef. 2,14-22), innestati in Colui che ne è la forza propulsiva e il compimento stesso, per la potenza del suo Spirito. Ed è qui che risuona particolarmente incisiva l'ammonizione di s. Paolo verso i vari ministri nella chiesa: « ...  tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo » (Fil 2,21).

              La responsabilità si traduce quindi nell'accettazione di un compito, il cui senso sta tutto nel favorire la riconciliazione con Dio e con se stessi, con i fratelli, con il mondo, liberando gli spazi del cuore e creando rapporti rinnovati.

              Il primo elemento caratteristico di un compito siffatto è quello di portare alla vita. Si è tanto smarrito il senso della realtà di Dio che l'uomo è rimasto in balia delle sue ossessioni. E' tanto difficile per l'uomo d'oggi, anche per il credente, per le stesse persone consacrate, custodire la tenerezza verso l'umano nella sua trasparenza del divino senza contrapporre o contrarre nervosamente i due poli a scapito della sanità di fondo dell'anima. Vivere senza illusioni e senza vergogna, evitare cioè di cadere nelle opposte tentazioni di idolatrare o disprezzare la carne, la dimensione umana nella sua concretezza, non è agevole. Eppure cielo e terra possono ancora essere vissuti in unità e la guida spirituale si impegna ad essere come il ponte, la strada vivente, nel senso che la percezione della possibilità di tale verità in lei schiude l'anima alla stessa verità. Una persona sente il desiderio di guarire se intuisce che qualcuno la conosce dal di dentro , la sta rivelando a se stessa. Di qui comincia il vero cammino ascetico, lungo e faticoso, ma gioioso, con l'energia del cuore ormai rinnovata e continuamente rinnovantesi.

              L'altro elemento costitutivo del compito di responsabilità è quello che fa da fondamento stesso al primo : portare alla vita significa in sostanza dare il Signore. Non credo ci sia parola che meglio interpreti le attese degli uomini d'oggi della parola del profeta Isaia : « Consolate, consolate il mio popolo » (Is. 40,1). Partendo da una visione più totale e unitaria dell'uomo, più fiduciosa nell'opera stessa di Dio e più confidente nella sua grande misericordia per gli uomini, si sperimenta come dare consolazione sia dare il Signore. Non tanto però come un voler dare il Signore quanto piuttosto come uno svelare l'amore del Signore nell'essere in comunione con gli uomini. Del Signore i cuori hanno bisogno, è lui il consolatore, ma prima di tutto hanno bisogno di sentire che è solo l'amore al Signore a suggerire strategie e attenzioni nei loro riguardi. Alla fin fine ogni tipo di mediazione a livello della vita spirituale si riassume in questo: Qualcuno da mettere in rapporto più diretto e più intimo con qualcuno, Qualcuno vivente  di fronte a qualcuno vivo.

              Alla serietà del compito non si confanno le improvvisazioni o i sentimentalismi. Dare un buon consiglio è alla portata di tutti o quasi. Individuare i mezzi per seguirlo, questa è la cosa importante e difficile, veramente utile, ma rara. Ciò che si muove dentro l'anima è troppo grande perché noi lo si possa capire o dirigere. Nessuno vi potrebbe metter mano se non con il mandato di Dio ed anche così sempre a rischio di violare un'intimità, di forzare qualcosa di assolutamente personale. Proprio il profondo rispetto e l'amore all'uomo inducono ad umiltà e delicatezza, incapaci come siamo di cogliere la presenza dello Spirito di cui non dovremmo essere che i servi-collaboratori. Diventa essenziale perciò metterci alla scuola dei Padri, i maestri insostituibili di fede e di vita, per diventare più recettivi nei confronti dello Spirito, più malleabili alla sua azione, più attenti alle tracce del suo passaggio e più coinvolti nelle 'segrete' intenzioni divine operanti nella storia a rivelazione di quell'amore di Dio che siamo chiamati a certificare.

 

 

 

STILE DI RAPPORTI

 

 

              Accennavo poc'anzi al fatto che oggi l'esercizio della paternità spirituale presenta più sfumature che non nel passato. In effetti le persone che arrivano al monastero sono assai diverse quanto agli ambienti di provenienza ed alle esigenze.

              La comunità ha sempre privilegiato e preferito rapporti personali, riducendo al minimo l'accoglienza e l'ospitalità di gruppi. E questo non solo per motivi logistici, data l'esiguità di spazio e l'inevitabile dispersione che ne deriva a una minuscola comunità quale la nostra, bensì per ragioni ideali, rispondenti ad una certa sensibilità spirituale. Si è trattato insomma di dar risposta ad una sollecitazione delle stesse persone le quali si lamentano che sono pochi i luoghi dove vivono religiosi che  si diano premura di ascoltare, di dedicare tanto tempo solo ad una persona; dove trovare uno a cui aprire individualmente i segreti del proprio cuore in tutta pace, senza fretta, senza timore, uno che sia disposto a farsi carico, capace di comprensione e di calore, di starti a fianco personalmente e di parlare la tua lingua, nel nome del Signore.

 

 

             

Provenienza ed esigenze delle persone.

 

              Rispetto dunque alla provenienza distinguerei le persone in tre gruppi. 1. Ci sono quelli che provengono da ambienti ecclesiali specifici o comunque con una scelta ben definita di vita e di pratica cristiana. Mi riferisco a quanti fanno parte di gruppi o movimenti ecclesiali, a consacrati, a praticanti più o meno convinti, i quali desiderano vivere più profondamente e seriamente le loro scelte e chiedono una vera e propria direzione spirituale, benché non sempre dichiarata espressamente. Spesso la richiesta iniziale è la seguente: Padre, mi confessa? Mi insegna a confessarmi?

2. Ci sono poi quelli che definirei 'in ricerca' nel senso che sono mossi dagli interessi più vari e provengono da ambienti disparati, dalle esperienze più diverse, buone e meno buone. Si tratta di persone tormentate, di curiosi nella loro incredulità, di gente confusamente assetata di verità, dedita a letture, ricerche o comunque interessata a tutto ciò che può gravitare attorno allo 'spirito' nella sua accezione più larga, di persone che si ritrovano ad avere come abbandonato l'antica fede ma con una porta del cuore sempre aperta senza più sapere a chi o a che cosa. Chiedono di tante cose, vogliono confrontarsi su tanti aspetti, in attesa che emerga la domanda vera e, naturalmente, la risposta adeguata.

3. Infine - e sono numerosi, in prevalenza donne - ci sono quelli che vengono per un consiglio, per esporre un problema, per manifestare un proprio dolore o un proprio turbamento, per affrontare una situazione di vita, una delusione affettiva, per non sentirsi così soli, specie quando ci si ritrova fragili o malati nella psiche.

              Generalmente le persone vengono a sapere del monastero da chi già ci è stato, dall'amico, dal conoscente; sono le persone stesse a passarsi parola. In parte, invece, arrivano in seguito agli sporadici incontri o conferenze tenute da un fratello della comunità oppure, molto più raramente, in seguito a lettura di qualche nostra pubblicazione.

              A parte le storie personali, comuni esigenze di fondo affiorano nelle anime. Si avverte oggi un profondo disagio interiore dovuto alla perdita di una identità e di un'armonia interiori che, né la fede così come viene vissuta e trasmessa comunemente, né la cultura con i suoi surrogati, sembrano capaci di ripristinare. Si sente vivo il bisogno di senso, di una conoscenza di se stessi che non si riduca al piano psicologico, oggi così inflazionato. Tutti sanno di portare un infinito dentro di sé ma, più che racchiuso, è avvertito come ormai nascosto. Diffuso e profondo è il bisogno di consolazione. Ci si trova in preda alla solitudine, ad una certa confusione, allo smarrimento, con la nostalgia del vigore di una fede di un tempo, al cui languore attuale però non ci si arrende. Il cuore chiede altro, sebbene non si sappia più bene cosa né come fare per soddisfarlo e pur tuttavia così sensibile a nuove suggestioni. E' qui che si situa la 'piacevole' scoperta del monastero; di qui si dipartono nuovi cammini che ridanno fiducia al cuore e trasfigurano lo sguardo, perché è proprio il modo di guardare che va cambiato.

              Si vive in stato di perenne autodifesa, anche contro se stessi. Forse tanta arroganza o egoismo o spudoratezza derivano semplicemente dall'incapacità di accogliersi e guardarsi con bontà, senza disprezzo, di vivere in intimità e tenerezza, qualità così essenziali all'umanità degli uomini e delle donne, all'esperienza stessa di fede dei credenti. Eppure, come sembrano diventate 'nostalgiche' per molti fedeli le parole di s. Paolo: «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio » (Ef. 2,19) !

 

 

Natura del rapporto.

 

              In tale contesto umano, come viene recepita la figura della guida spirituale? E che tipo di rapporto si sviluppa?

Come avrete notato, non ho mai usato l'espressione 'padre spirituale'. Per pudore, semplicemente. In effetti oggi essere 'padri' significa prima di tutto riuscire ad essere fratelli e amici, significa farsi sentire fratelli e amici proprio perché si è padri nel Signore.  Il titolo di padre è, da una parte, troppo scontato e, dall'altra, troppo venerabile. La coscienza comune, specie in chi non proviene da una pratica cristiana impegnata, fatica in un primo tempo a riferirsi alla guida spirituale come a un padre. Ha bisogno di sentire in lei il fratello e l'amico per trovarsi a proprio agio, per non sentire distanza, per vincere il timore, anche se fin dall'inizio percepisce che fraternità ed amicizia sono tanto più schiette quanto più fondate nell'amore al Signore. In realtà, le persone non cercano solo un fratello o un amico, ma hanno bisogno di incontrare un fratello o un amico perché sia svelato al loro cuore l'oggetto stesso dei loro desideri, cioè Colui che rende capaci di vivere da fratelli e da amici. E' l'incapacità a vivere, oggi, rapporti personali profondi, di cui però portiamo acuta la nostalgia, ad orientare la coscienza in tal senso.

              Di qui consegue la natura stessa del rapporto che si instaura. Si tratta pur sempre, in primo luogo, dell'incontro con una persona e del significato misterioso di grazia che esso racchiude, indipendentemente dagli scopi voluti o dalle esigenze espresse. Anzi, il più delle volte la domanda più profonda e più vera, quella che davvero dischiude il cuore alla grazia, si fa strada lentamente, quasi involontariamente. Ed emerge solo dopo aver constatato la sincerità e la serietà di un rapporto personale che si instaura proprio a partire dal sentirsi accolti, dal non sentirsi mai soppesati o valutati.

Dall'impostazione di questo inizio dipende molto la riuscita del cammino futuro. Anzitutto ci vuole tempo perché si possa individuare e accettare un cammino spirituale. Mentre poi in alcuni si sviluppa più compiutamente, in altri resta appena abbozzato, ma comporta comunque un frutto di crescita, di maturazione. L'anima si accorge che si sta trasformando interiormente dalla sensazione di sentirsi portare Dio dentro il proprio cuore, di aver più coscienza di sè, di scoprire finalmente di percorrere una strada, di non procedere a casaccio, di non sentirsi più sola.

              Volendo sintetizzare, direi che il cammino si snoda lungo due linee di forza, due tensioni principali: quella nel senso della profondità, che dà consistenza  e quella nel senso della dilatazione, che dà nello stesso tempo energia e agilità.

              Profondità.   Per illustrare la prima, la tensione nel senso della profondità, proporrei una analogia con la vita di una comunità. Una comunità si trova sempre posta, nel cammino del suo sviluppo, tra una 'tradizione', ricca di abitudini e di regole collaudate e una 'modernità' che vuole dare spazio al nuovo, ai sogni, ai desideri, piena di vitalità. Le regole della tradizione rischiano tuttavia di comprimere la vita o di risolversi in formalismi, mentre le novità della modernità rischiano di franare nell'illusione o di disperdersi inconcludenti. Quando si vuol far valere o l'una o l'altra istanza, rassegnandosi ad un'opposizione insormontabile tra le due oppure, a seconda delle fasi che si attraversano, far prevalere ora l'una ora l'altra, il cammino si fa sincopato perché  non  corrisponde alla tensione di entrambe in un unico senso. Avviene per le persone come per le comunità: un cammino spirituale deve poter mediare tra la tradizione, fatta di comandamenti , di regole di vita da osservare, di esperienza e di concezioni ereditate e l'umanità concreta, costituita dai sentimenti, dalla storia, dai desideri e dalle esigenze personali. Si tratta in sostanza di acquisire profondità arricchendo, da un lato, l'umanità con il riferimento alla tradizione e, dall'altro, di far nascere la libertà interiore con il riferimento alla concretezza dell'umanità. L'effetto che ne deriva è quello che io chiamo della 'consistenza'.

              Credo valga qui menzionare uno dei punti di forza della spiritualità dei Padri, il fatto cioè di non considerare separatamente l'aspetto umano e l'aspetto spirituale nel cammino ascetico, bensì di comprendere l'uno in funzione dell'altro. Noi oggi potremmo parlare di maturazione umana e di maturazione spirituale, ma occorre tenere presente che non si tratta di due piani separati né tanto meno contrapposti e neppure che il primo sia da intendersi come propedeutico o preliminare rispetto al secondo. No, l'uno va ricercato nell'ottica dell'altro, l'uno prende consistenza in funzione della consistenza dell'altro e viceversa. Il cammino spirituale si configura così come un ritrovarsi nel mistero globale che ci definisce e ci struttura, un riappropriarsi del nostro essere totale, creati come siamo ad immagine del Figlio, in Lui rinnovati e rivelati a noi stessi.

              E' in questo processo che risalta in tutto il suo valore l'opera di discernimento della guida spirituale, frutto precipuo della sua paternità nello Spirito.  Per questa persona concreta, in questo momento concreto della sua storia, cosa realmente può favorire la sua crescita, il suo progresso spirituale? Discernere significa allora individuare concretamente le prospettive ed i modi di agire, in una parola i mezzi che le consentano di progredire. Non serve discettare sul valore dei mezzi in se stessi, di per sè tutti buoni. E' importante scoprirne la bontà nell'applicazione ad un determinato caso concreto. Sono diversi per ogni persona, diversi nel tempo per la stessa persona, mezzi che diventano esercizi concreti, compiti da svolgere e sui quali la persona si rende conto di giocare la propria realizzazione.

              Nel discernimento la guida spirituale esprime la sua autorità, la quale deve essere specifica alla circostanza e non scontata o routinaria o frutto di gusti personali, per quanto buoni e legittimi, ma non collegati all'atto del discernere. L'autorevolezza del discernimento suscita una risposta libera di obbedienza quando procede dalla capacità di guardare dal di dentro, dalla capacità di guardare con lucidità e bontà insieme. Allora il discernimento opera sempre anche lo scioglimento di una opacità nell'anima, di una resistenza interiore e libera le energie del cuore.

              Dilatazione.  A questa tensione nel senso della profondità si accompagna inseparabilmente l'altra tensione nel senso della dilatazione. E' un dato di esperienza: il cuore umano ha bisogno di trovare il motivo sufficiente per impiegare l'enorme energia che vi dimora. Eppure, è strano constatarlo, generalmente le persone vivono in uno spazio interiore angusto oppure illusoriamente dilatato senza esserlo per nulla di fatto ( le passioni non si potrebbero forse anche comprendere come dilatazione illusoria  dello spazio del cuore?).

              Il problema è quello di allargare i confini del cuore. Gli impedimenti che costringono il cuore al chiuso e allo stretto sono il timore e la ristrettezza della dimensione psicologica rispetto alle esigenze dell'anima. In effetti, oggi più di ieri, le persone si ritrovano prigioniere di un timore che portano latente dentro di sè, timore che le chiude, in modo evidentemente non riflesso, nel disprezzo di sè, nella diffidenza verso gli altri e, per contrapposizione, come forma di autodifesa, nell'arroganza e nell'aggressività. L'educazione religiosa di stampo essenzialmente moralistico ha contribuito non poco alla sedimentazione di questo atteggiamento di timore con l'insinuare l'immagine di Dio rivale dell'uomo, la concezione della religione nei termini di una imposizione costrittiva di norme, tanto da dover diffidare sempre di quello che il cuore prova sotto il peso di un opprimente senso di colpa,  da diffidare della bontà dei propri desideri, ecc. In tale situazione il cuore lavora male, a disagio.

              Educare quindi alla fiducia, educare ad ascoltare il linguaggio del cuore liberandolo gradatamente dal timore diventa parte essenziale del compito di una guida spirituale, coinvolta come deve essere in un rapporto personale che su quella fiducia si basa e che di quella fiducia è l'espressione più percepibile e diretta.

              Ora, tale fiducia è radicata in Dio, nella confidenza in Dio, che di tutti è Creatore e Padre, rendendoci per ciò stesso uguali come fratelli, tutti figli degni della stessa amorevolezza. Pertanto, liberare il cuore dal chiuso in cui lo tiene il timore significa contemporaneamente farlo uscire al largo, schiudere gli orizzonti, predisporlo a vedere il volto del Signore recuperando il senso dell'invisibile, in una parola dischiudere il livello psicologico al mondo spirituale per scoprirci nella nostra identità e assumere pienamente i nostri compiti. Oserei dire che la scoperta del mondo spirituale è forse la scoperta più feconda e dilatante per l'anima che accetta un cammino spirituale. E' una specie di rovesciamento di prospettiva, una conversione continuamente in atto. Diventa così possibile uscire dai propri stati d'animo senza rinnegare l'energia del cuore, schiudere la cronaca quotidiana all'eterno, ritrovare una profondità di senso imprevedibile a sensazioni e sentimenti, avere a disposizione un'ener...

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