JEAN DE JOINVILLE
TITOLO ORIGINALE:
HISTOIRE DE SAINT LOUIS
NOTIZIA BIOGRAFICA
Giovanni, sire di Joinville, nasce nel castello di Joinville (Haute-Marne) nel 1224. Viene allevato alla corte del suo signore, il conte di Sciampagna Tebaldo IV, e, maggiorenne, è investito dell'ufficio di siniscalco di Sciampagna, ereditario nella sua famiglia. Nell'agosto 1248 parte per la crociata diretta da Luigi IX. Imbarcatosi a Marsiglia, s'incontrò con san Luigi a Cipro e raggiunse con lui l'Egitto; dove si distinse nella battaglia di Mansurah (18 febbraio 1250). Fatto in seguito prigioniero e liberato nel maggio dello stesso anno, passò in Siria col re, e vi rimase fino al 1254. La fermezza, il buonsenso, la lealtà di cui diede prova nei rischi di questa disgraziata spedizione, gli acquistarono la confidenza e l'amicizia del re. Rifiutò di prender parte alla seconda crociata organizzata da Luigi IX, durante la quale il sovrano morì a Tunisi nel 1270. Nel 1282 testimoniò a lungo davanti alla commissione ecclesiastica incaricata di preparare la canonizzazione del re. È intorno a questo tempo che, dietro richiesta di Giovanna di Navarra, moglie di Filippo il Bello, si accinse a comporre il suo libro «delle sante parole e delle buone opere» di san Luigi. Morta la regina nel 1305, l'opera fu offerta, nel 1309, al figlio di lei, Luigi, poi Luigi X. Si divide in due parti assai disuguali: la prima - fino al capitolo XV - è dedicata alle virtù e ai detti, la seconda - dal XVI al CXLIX, ultimo capitolo alle imprese e alle buone opere di san Luigi. Joinville mori qualche anno dopo, intorno al 1318.
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Il mese d'ottobre del 1309, più che ottantenne, Giovanni, sire di Joinville, siniscalco di Sciampagna, chiude nel nome di Dio il suo libro «delle sante parole e delle buone opere» del re san Luigi. Quarant'anni sono trascorsi dalla morte del sovrano che gli fu amico. Sul trono di Francia il sire di Joinville ha visto succedersi il figlio e il nipote del Santo: il re nasetto, troppo più vago d'eleganze e di cavallerie che vigile a difendere l'autorità regia dagli intrighi dei cortigiani; il re falsatore e negromanziero che ha disonorato in Europa la casa di Francia. Quando nella sua storia tocca di loro, Joinville perde quella bonomia che è la sua dote suprema di uomo e di scrittore. Se per tutti in così breve volgere d'anni il regno di Luigi IX è diventato il mito della storia di Francia, per il vecchio siniscalco giunto al termine della sua giornata questa età dell'oro coincide con la favola rapida ed eroica della giovinezza, il mito del regno è anche il mito della sua vita. Fortuna nostra, che un'opera di storico s'incontri con la gelosia di un vecchio; che scrivere la vita del suo re non sia diverso per il siniscalco di Sciampagna dall'abbandonarsi all'invito di queste piogge di fine d'anno, riandare i quaderni più cari della memoria.
Tutta la narrazione e assistita da quel tempo intimo e geloso con che in sogno nel castello di Joinville, il morto re torna a parlare al suo vecchio amico: «ed era in vista meravigliosamente lieto e sereno; e anch'io ero molto contento di vederlo nel mio castello, e gli dicevo: "Sire, quando partirete di qui, Vi ospiterò in casa mia, in una mia terra che ha nome Chevillon". E lui mi rispose sorridendo e mi disse: "Sire di Joinville, in fede mia, non intendo partire così presto di qui"».
In questa fortunata coincidenza nasce il primo esempio di storia biografica della letteratura francese; e di prosa memorialistica. È la sortita che la cronaca medievale prendeva in un paese i cui storici più genuini si chiameranno Retz, SaintSimon, Voltaire, Sainte-Beuve, se ci è permesso. Ne segnava la vocazione psicologica e moralistica anche in questo campo: i moti e la mente di un'età non risolvere in operazioni chiuse e senza speranza, ma tentarli - e la memoria e di gioco in un'approssimazione mai rassegnata all'immagine eterna dell'uomo. Solo così anche le età particolari discoprono, come nell'opera d'arte, la loro voce assoluta.
Joinville, a differenza del suo vicino Villehardouin, non ha interessi politici e militari, e non dobbiamo chiedergli un quadro completo e ordinato del regno di Luigi IX. All'opera di organizzazione interna compiuta dal re, egli accenna come a un aspetto della sua santità. Tace del tutto vicende d'importanza decisiva per la storia di Francia, come le ribellioni del Mezzogiorno e le conseguenti paci di Parigi e di Lorris. La pace con Enrico III d'Inghilterra e i fatti che portarono al vantaggioso trattato col conte di Sciampagna, appaiono nella sua storia come quegli altorilievi privi di continuità e di prospettiva che, intorno al ritratto di un personaggio, istoriano sui sarcofaghi gotici, scorciate e contratte, le vicende salienti della sua vita. «Dopo che il re ebbe schiacciato il conte Pietro di Bretagna... »: così si passa dai torbidi del 1227 all'intervento di Luigi IX in aiuto del conte di Sciampagna, che è del 1234. La descrizione della corte bandita di Saumur ci trasporta subito dopo, direttamente, alla battaglia di Taillebourg (1242). Di qui si viene alla partenza per la crociata, del 1248, attraverso la malattia del re, considerata come l'unica causa di un evento militare e politico. Le forze subiscono la stessa riduzione dei tempi. Da questo istante il racconto sembra diffondersi in una esposizione più completa dei fatti; ma avvertite subito come in realtà le operazioni militari della crociata, i paesi che le furono teatro, i movimenti complessi che agitavano intorno ad essa i popoli dell'Oriente, risorgono con un prestigio di belle favole con l'incoerenza degli episodi di un poema cavalleresco. In poche parole si sbriga sulla crociata del 1267 «perché non vi fui». Sicché dove l'agiografo pare dimenticarsi, non è per un'esigenza di storico, ma è perché la memoria gli prende la mano.
La memoria collabora con lo stesso intento agiografico - e lo riscatta - in quella esecuzione di un ritratto come luogo di una saggezza che è l'unico fine del nostro storico. E nella sua ingenuità, ci ripropone con impressionante violenza il miracolo complesso e sconcertante del medioevo cristiano.
Sul finire del Rinascimento abbiamo scoperto la psicologia, e da allora non abbiamo finito d'essere ossessionati dal demoniaco immanente nell'uomo. Gesuitismo da una parte e nuovo agostinismo dall'altra, ci hanno aperto, nel campo religioso, opposti segreti di salvezza. Moneta falsa o moneta preziosa ma fuori corso. L'ultima risposta per le nostre coscienze delicate è ancora quella di Adelchi: «godi, che re non sei». San Luigi credeva che il diavolo abitasse fuori dell'uomo e, ci attesta Joinville, aborriva dal nominarlo. Lo esorcizzavano metodicamente con la preghiera e con penitenze aspre e puerili; e così messa in salvo, la natura faceva profittare la grazia in una libertà e confidenza che noi abbiamo perduto per sempre. Col loro rigore più preciso che sottile, guidavano la storia: la Prudenza, ninfa dai tre occhi, segnava il passo, e si trovava d'accordo con la carità.
Dobbiamo confessare che anche nell'operetta di Joinville è proprio questo per noi il primo elemento di ammirazione: una tale santità fondatrice di regni, una tale organizzazione di tutto il vivere, di una natura ancor barbara, nei limiti eroici, e così maturi, di un paradosso ellenistico; sino a derivarne a noi talvolta un'impressione di grottesco, mentre a loro dava risultati meravigliosi.
Presso il re santo di Joinville, la pietà del monaco suggerisce ad ora ad ora l'abnegazione del soldato che divide i rischi e i disagi con la sua gente, imponendosi, prigioniero, persino ai Saraceni, e la serenità e severità del giudice, il politico prudente e il difensore dell'autorità regia contro i grandi ed il clero; si spiega in una saggezza unitaria che sa deliberare con sottigliezza e agire con pacifica convinzione, e ha regolato tutti gli atti del vivere. Quando poi reca i carichi ai fossati per ottener perdonanza, e seppellisce i cadaveri dei suoi soldati, e lava i piedi ai poveri o li serve a tavola, pare obbedire, più che a una commozione eroica, a quella stessa regola di prudhomie che gli suggerisce l'igiene del bevitore o quella dei trattenimenti a fine di pasto, e lo fa giudice persino in materia d’eleganza. È lui ad affermare che «savio val più che devoto».
Nella vita religiosa l'uomo moderno potrà oscillare fra l'ipocrisia arcadica e l'eroismo tragico. Presso di loro la religione aveva l'aspetto di una igiene mediante la quale tutti i gesti e le emozioni del vivere, dai più umili ai più eroici, nel regno della salvezza o in quello della perdizione, erano assunti in una forma ben definita, in un «ordine» che li salvasse per l'eternità nell'atto stesso che li collocava su un piano di norma dove il triviale trovava naturalmente posto accanto al sublime. La imitazione di Cristo era per essi un concetto più rigoroso e insieme più angusto che non per gli uomini moderni: ben scoperta dev'essere secondo Joinville l'analogia fra la vita del suo re e quella del suo Dio, fino alla morte, avvenuta «nell'ora stessa che il figlio di Dio mori sulla croce per la salute del mondo». Quando, fatto prigioniero, il siniscalco temette d'essere trucidato, s'inginocchia davanti a un Saraceno che tiene «un'ascia danese da falegname» e dice: «Così morì sant'Agnese». Una miniatura da libro d'ore. E allora avvertite come questi uomini facessero inconsciamente dell'ordine religioso la soluzione e redenzione anche estetica della loro miseria quotidiana. Il Cristo e i santi, la liturgia e la dogmatica, come il complicato cerimoniale delle loro corti, erano la «forma» prestabilita delle loro emozioni. Forse per questo anche l'arte era per definizione religiosa.
È mediante questa metafisica ch'essi raggiungevano, scavalcando la psicologia, una loro sincerità. Vedete il caso di quel rinnegato nativo di Provenza e divenuto gran signore in Egitto: sa e dichiara «che nessuna legge è buona sé non la cristiana» e che un giorno sarà dannato; ma confessa che non osa tornare in Francia temendo la povertà e il disprezzo: «Mi si direbbe di continuo: guarda il rinnegato! così preferisco vivere ricco ed in pace che venire a tal punto». Ammirevole quest'uomo che si porta dietro fino alla morte una tale chiarezza! Oppure meno affaticato di noi? perché nella gerarchia della spiritualità medievale egli ha trovato il suo ordine: l'«estat de péché». Comunque, da un tale annullarsi della psicologia in forme ideali, dalla riduzione dei gesti, dal silenzio dei sentimenti, notate quanta forza d'allusione acquisti anche artisticamente questo volto di rinnegato fermato tra il candore e la malinconia. A un'esigenza estetica, abbiamo detto, andava incontro la loro economia religiosa. Sul piano immediato dell'arte, si potrebbe spingerla a un'equivalenza con l'astrazione formale, parlare di un classicismo gotico, di una superiore sincerità ottenuta nella reticenza e nel pudore dell'ordine. Qui, nel mondo dei sentimenti, non parlerei di primitivismo, come nel caso dello storico; bisognerebbe correggere il troppo generico giudizio che a ignoranza e a insufficienza tecnica attribuisce tutta la semplicità dell'arte medievale.
A tale proposito, esemplare è il capitolo CXXVI. Durante il ritorno dall'Oriente, i crociati sbarcano nell'isola di Lampedusa, e vi trovano un antico eremitaggio abbandonato: attraversano il cortile deserto, penetrano in una volta: «e trovammo gli scheletri di due persone; le costole si tenevano ancor tutte insieme, e le ossa delle mani sul petto; ed erano distesi rivolti a oriente, nella maniera che si seppelliscono i morti. Tornati a bordo, mancava un marinaio; e il maestro della nave pensò che fosse rimasto colà per diventare eremita; e perciò Nicola di Soisi, maestro dei sergenti del re, lasciò sulla riva tre sacchi di biscotto, acciocché li trovasse e avesse da vivere». Tra il silenzioso stupore che accompagna la scoperta di quei resti così eloquenti, e il dramma improvviso di una coscienza, e i sentimenti dei compagni che partono, quanti gesti e quale romanzo noi non avremmo sollecitato! Per essi, semplicemente, esisteva lo «stato anacoretico», e un uomo, a un certo punto della sua vita, lo aveva abbracciato. Sospettavano un dramma? Comunque, esso era già fatto ordine e silenzio. Nessun commento e nessuna meraviglia; né toni eroici: naturali, pensano a lasciargli del biscotto come noi porgiamo il cappello all'ospite che si congeda.
E tuttavia, se nella memoria ottuagenaria del siniscalco il fatto lontano non s'è cancellato, e la sua voce s'indugia a narrarcelo, attonita, concludiamo che la loro semplicità non era ignoranza; sicché non finiamo d'ammirare nel loro contegno un miracolo di riserbo, di pudore, d'eleganza. Sulla pagina, la possibilità di comprendere tanto di vita in linee così essenziali e composte. Soltanto, badiamo ad avvertire che se dopo l'invasione del naturalismo tale qualità sarà una conquista difficile dell'arte, - la vita sempre più abbandonata alla rettorica del sangue - nell'età gotica la purificazione era già avvenuta anteriormente. Non sarà sforzo del nostro Rinascimento di riconquistarla anche nel tempo mediante l'elaborazione del cortegiano e del galateo? Ridotta immagine di un mito, presto distrutta per l'avventura eroica e proterva nella quale ancor oggi siamo tutti impegnati.
Non vorremmo che la nostra voce paresse una eco di certo facile medievalismo. Non è il tempo per tali giochi. Sappiamo, e anche Joinville ce lo dimostra, quanto si dibattesse il fanciullo barbaro in quelle forme che ne tentavano l'incantamento. Lo stesso re servitore dei poveri è implacabile contro gli infedeli e gli Albigesi. Son parole sue che «il laico, quando sente parlar male della legge cristiana, non deve difenderla se non per la spada, di che deve dare per mezzo il ventre, tanto quant'essa può entrarvi». Il francescano che terrà l'orazione funebre in onore del re, avanzerà come prova decisiva della sua santità il fatto ch'egli mantenne la parola persino coi Saraceni, quantunque, non facendolo, «ci avrebbe guadagnato diecimila lire e più». E già il siniscalco, ingenuamente, davanti alla possibilità di truffare gli infedeli, non ci aveva nascosto il suo disappunto per l'onestà troppo scrupolosa del re.
Fervidamente religioso, Joinville non vuole abbandonare la Terrasanta quand'anche il re decidesse di farlo, finché l'impegno verso la Croce non sia interamente assolto; ma poi dichiara di non voler servire per l'onore, e pretende d'essere ben pagato. Un suo cavaliere viene offeso, ed egli minaccia di abbandonare il campo se l'offensore non ripara prontamente. La loro giustizia mantiene spesso vivo il sapore della vendetta: è crudele e impietosa. Il senso dell'onore è in essi un vizio implacabile: sempre pronti a por mano alla spada; e se contendono a parole, nei loro alterchi avvertite ancora la truculenza massiccia dell'età del bronzo. «Mucchio di letame!» grida in pieno consiglio Giovanni di Beaumont al nipote Guglielmo che non è d'accordo con lui sul rimpatrio dell'esercito crociato; e un tale insulto quasi ve lo ricantate nel greco di Omero.
Che l'opera di Joinville possa servirci di pretesto, ciò è proprio per la garanzia offertaci da quel tempo d'evocazione che la domina tutta, dall'abbandono ingenuo al ricordo come già alla vita, che è la dote più seducente di questo scrittore. Ma per essa appunto, san Luigi è qui un ritratto ben più vivo che non il paradigma tentato da noi o l'immagine troppo levigata che la tradizione ce ne ha offerto.
Sotto il sovrano ed il santo, Joinville ha il dono di veder sempre l'uomo, e accostarcelo nei suoi tratti più familiari, e fermarlo con simpatia negli atteggiamenti più concreti. Vedete san Luigi render giustizia seduto ai piedi di una quercia nel bosco di Vincennes; e apparire a cavallo su una altura incontro ai Saraceni, bel guerriero soprastando tutti delle spalle; e seppellire i cadaveri dei suoi soldati «senza stopparsi il naso, mentre gli altri se lo stoppavano»; e a tavola, vestito di cambellotto, innacquar con criterio il suo vino; e ridere cordialmente alle sortite del siniscalco. Dove poi s'intrattiene con costui, seduto sulla soglia dell'oratorio o sul parapetto della nave, l'amico ai suoi piedi, la pagina è un miracolo di grazia e di amabilità. Pensate ai colloqui di san Francesco e di frate Leone: con meno d'astrazione lirica e tanto più di movimento cordiale. «Siniscalco, or ditemi un po'... Siniscalco, sedetevi qui...» Joinville è uno di quegli esseri franchi e semplici e candidi coi quali i grandi uomini o i potenti possono concedersi la libertà di abbandonarsi alla propria natura, di essere finalmente veri. Quando il siniscalco confessa che preferirebbe aver commesso trenta peccati mortali piuttosto. d'essere lebbroso, il re protesta ch'egli è uno stolto (uno stolto, badiamo, perché la sua è una convinzione, fondata su un calcolo), ma il siniscalco è altrettanto convinto di quello che pensa, e non teme di contrariare il sovrano ed il santo. Commenterà Péguy nel Mistero dei Santi Innocenti:
La libertà di parola
Di colui che non vuole rischiare
D'esser lebbroso piuttosto di cadere
In peccato mortale
Mi garantisce la libertà di parola di colui
Che preferisce esser lebbroso
Piuttosto di cadere in peccato mortale.
Se l'uno dice ciò che pensa, l'altro pure
Dice ciò che pensa.
L'uno prova l'altro.
È per questo che il san Luigi di Joinville ci seduce tanto. Sentiamo ch'è vero. Ed è così che, accosto al suo ritratto, a garantircelo, possiamo ammirare, non meno vivo, mobile, cordiale, quello di Joinville.
Questi non si lascia aduggiare dalla presenza del suo eroe. Anzi, la verità e la tristezza del vecchio che scrive esaltando sopra tutto il ricordo di quell'amicizia, lo scrittore riesce spesso il vero protagonista di questa storia. Il quale, davanti al suo eroe, non ha mai voluto essere che se stesso. Il re, pare che voglia rammentarci continuamente, fra candido e malizioso, è un santo: lui invece è un uomo comune, uomo anzitutto, con le sue convinzioni che non sconfesserebbe per nulla al mondo di fronte a nessuno, coi piedi ben saldi a terra; la sua dote suprema è il buon senso. Del quale, anche la santità può spesso servirsi; e allora il siniscalco non teme, richiesto o no, di dare i suoi consigli al re. E se qualche aspetto di quella santità non gli piace, ce lo rivela francamente, come quando biasima la freddezza del re riguardo la moglie e i figli.
Con questa semplicità, senza pose e senza finzioni, si racconta tutto apertamente, nelle virtù come nei difetti. È pio, ma senza ambizioni di santità o di martirio, e la sua fede sa organizzarla praticamente: Dio è sopratutto colui che, pregato, può prolungare la vita degli uomini e soccorrerli nel pericolo. Non si abbasserebbe mai, come il re, a lavare i piedi ai poveri, «questa gentaglia». E ama i begli abiti e la buona tavola. Onesto e leale, ma un po' meno con gli infedeli. Generoso, ma non trascura i propri interessi. Dominato, come tutti gli uomini feudali, dal senso dell'onore, guai se ha il sospetto che lo sopraffacciano. Coraggioso, compie il suo dovere fino in fondo alla Mansurah, ma senza assumere pose eroiche; e quando ha paura, e ne trema e si copre di sudore, ce lo fa sapere. È sensibile e tenero: vedetelo quando parte da Joinville per la crociata, che non osa voltarsi indietro «acciocché il cuore non mi intenerisse del bel castello che vi lasciavo e dei miei due cari figli»: che pare una parafrasi dei celebri versi di Dante.
Questa pienezza di umanità ci porta incontro all'artista. Joinville è naturalmente artista. Trasmutabile, fanciullescamente ingenuo e curioso, possiede in sommo grado la virtù di scorgere e amare gli aspetti sempre nuovi del mondo, in particolare l'originalità e complessità degli uomini, scoperta in un atteggiamento o in un motto. Così tutta la sua storia è popolata da un folla di figure e di episodi che appaiono e scompaiono con un prestigio da lanterna magica, ti tuttavia ripresi con rara naturalezza in ciò che in essi è di nuovo o di comico o di truce o di pittoresco. Vedete il chierico che rincorre con la scimitarra i due malfattori per le vie di Parigi «sotto la luna bella e chiara» - e ci pare uscito da una ballata di Villon -; e il profilo risentito del conte di Bretagna che, colpito da un fendente al viso nella battaglia della Mansurah, cavalca spavaldamente sputando il sangue che gli cola in bocca e imprecando ai nemici; e la vecchia saracena falotica che traversa la strada, avviata a bruciare il paradiso e l'inferno; e Guglielmino, valletto scaltro e ladro cortese; e le figurette magiche di tre menestrelli che suonano si dolcemente il corno e fan capriole; e l'esclusa tristezza di quel chierico «grande nero magro e ispido» incontrato nella chiesetta di campagna presso Sidone, che Joinville, sospettandolo, non lascia accostarsi al re.
Ha un'immaginazione vivissima. La sua stessa naturalità così netta di cognizioni e incoerente e incline alla meraviglia, gli basta a trasfigurare fiabescamente tutto quello che tocca, anche gli avvenimenti e i luoghi che interessano più direttamente la storia. Realtà favolosa diventano per questo semplice mezzo i costumi dei Beduini, e le ribellioni e congiure d'Egitto, e il Nilo verde che scorre dal Paradiso Terrestre, e le remote origini della potenza dei Mongoli, e l'estrema Norvegia dove il crepuscolo dell'alba e quello del tramonto si confondono, e il Veglio della Montagna e gli Assassini rievocati con la stessa meraviglia del Novellino e del Milione; mentre la Madonna che copre il petto dell'abate di Cheminon dormente o sostiene per le spalle un uomo caduto in mare, ci riporta alla cadenza dei Fioretti di san Francesco o dei Miracoli della Vergine. E con quale epico abbandono alle forme è descritta la corte del cielo, là, dove un cavaliere tartaro, allontanatosi dal campo, giunge in Paradiso!
Svegli e vergini ha i sensi, in particolare la vista, sempre offerta alle forme e ai colori. L'aggettivo bello ricorre con insistenza nella sua pagina. Bello il re che appare a cavallo, l'elmo dorato in testa, la spada in pugno; «gran bella gente» gli uomini del sultano schierati sul lido all'arrivo della flotta cristiana indossando armi d'oro: «e il sole vi percoteva, e le faceva risplendere»; e il mare azzurro tutto coperto di vele bianche. E s'indugia nei quadri brulicanti e ariosi della corte di Saumur e della partenza della flotta crociata; e descrive con precisione i doni scambiatisi fra il re e i sovrani d'Oriente, e i suoi sensi, già pronti per l'ultima unzione, gustano ancora il profumo che si sprigionò dagli scrigni inviati dal Veglio della Montagna. E se i colori e le luci cantano così nitidi ancora nella sua memoria, alla distanza di tanti anni, è ch'egli ha amato la tenda blu gettata sul padiglione del sultano, e la veste vermiglia a righe gialle di un suo valletto, e il fuoco «bello vivo e robusto» appiccato alla torre del sultano, e il bagliore di una fiamma ardente sul cheto mare, notturno, e le targhe coll'arme del conte di Giaffa appese a ogni merlo del suo castello, «cosa bella a vedersi, ché l'arma sua era una croce rossa in campo d'oro». Davvero pare che il mondo sia stato creato ieri. Arrivato all'ultima pagina della sua storia, è forse in cerca di un bravo miniatore che gli orni degnamente il libro avanti di presentarlo al principe Luigi. Questa circostanza gli suggerisce un'altra immagine dove riposare i suoi occhi lagrimosi di ottuagenario e salutare insieme per l'ultima volta la vaghezza del mondo che presto gli verrà meno; e poi che sta riassumendo le lodi di san Luigi, conclude: «E come lo scrittore, finito il suo libro, che lo decora d'oro e d'azzurro, decorò il nostro re il regno suo di belle abbazie e d'ospedali in gran numero e di conventi...» Un dipinto gotico, azzurro e oro, dove le torri e i campanili sfuggono all'anello prezioso delle mura.
Veramente non riconosciamo qui l’immaginazione fosca del medioevo. E tuttavia non cerchiamovi grazie di Rinascimento. In Joinville la sensibilità estetica e l'amore delle forme è di una specie troppo più schietta e ingenua e primitiva: come l'allarme di un sangue ancora selvatico; e ci richiama più facilmente Omero che non lo Stilnovo.
Forse abbiamo eccessivamente insistito sulla specie figurativa della sua immaginazione. Non meno che agli atti e alle forme, Joinville è aperto ai sentimenti e ai moti spirituali. Vi abbiamo accennato anche troppe volte ma troppo di sfuggita. È evidente che le sue stesse immaginette vividamente abbozzate non prenderebbero tanto posto nella memoria del lettore se nei loro gesti o profili non fosse condensato un momento dell'anima, così nevralgicamente avvertito. Per la stessa ragione, egli è anche più attento alle parole, al tratto di saggezza o di cortesia, al motto, da qualsiasi parte venuto, che richiami al corso unico della vita umana, alla definizione del nostro destino. Anche il suo interesse per i Saraceni, questo popolo enigmatico e sorprendente, non è senza una viva curiosità morale. Qui siamo nella tradizione della novellistica medievale, dai fabliaux giù sino al nostro Boccaccio: la sua verginità primitiva che ci riportava ad Omero non può sfuggire all'eredità francese e cristiana.
E abbiamo detto della sua sensibilità. La vedrete scoppiare a ogni pagina in moti di gioia e di nostalgia e di terrore e di entusiasmo e di compassione, sia pure con quel riserbo gotico di cui parlavamo. Né questa tendenza a semplificare l'uomo impedisce a Joinville di accennare a piccoli drammi interiori, dove lo scorcio e la contrazione raggiungono, dicevamo, effetti di classicità. Ne abbiamo già rammentato qualcuno: la condizione del cristiano rinnegato, l'episodio di Lampedusa. Aggiungete il saluto di congedo del cardinale legato, quando, alla vigilia di lasciare la Terrasanta, si chiude in camera col siniscalco, e gli prende le mani, e scoppia a piangere fieramente per il dolore di dover abbandonare quei santi compagni e tornare alla corte di Roma, «fra quella gente corrotta». E ancora - e sarà il nostro congedo - rileggiamo quel capitolo LXXXV dove tutte le forze del nostro autore - disegno, colore, patos, moralità - convergono una sola volta unificate in un dramma tutto intimo e foltissimo.
Liberato di prigionia, il re, che si trova a mal partito, è tentato di lasciare la Siria e tornare in Francia, e ne ha chiesto consiglio ai baroni. In una seduta tempestosa, Joinville, solo contro tutti, ha esortato il re a rimanere, non senza muovergli qualche appunto con la sua abituale franchezza. Il re non ha detto nulla, riservandosi di manifestare la sua decisione fra otto giorni. Tale l'antefatto. Subito dopo si va a tavola, e Joinville siede accanto al re. Questi, insolitamente, non gli rivolge la parola. Forse è crucciato con lui. Alla fine del pranzo, mentre san Luigi recita il ringraziamento, il siniscalco, malinconicamente, si appressa a una finestra che s'apre in un vano della stanza; abbandona le braccia fra le sbarre. Indoviniamo che il suo cuore è gonfio d'amarezza. Pensa a quel che dovrà fare se il re lascerà la Terrasanta. Si abbandona ai ricordi. Forse gli tornano alla mente il bel castello di Joinville e i figli che vi ha lasciato per seguire il suo re. Ed ecco come questi lo rimerita. Ma noi con le nostre amplificazioni andiamo guastando, dopo averla tanto lodata, l'eloquente sobrietà del nostro testo. Affidiamoci a lei.
«In quel punto il re mi venne alle spalle, e mi pose le mani sul capo. E io pensavo fosse messer Filippo di Nemours che m'aveva tanto infestato quel giorno, per via dei miei consigli; e dissi: "Lasciatemi in pace, messer Filippo". Per avventura, mentre volgevo la testa, la mano del re mi sfiorò il viso; e riconobbi il re da uno smeraldo che portava in dito». Qui, un dialogo grave di contenuta reciproca simpatia; il re interroga con umiltà, il siniscalco risponde con franchezza un po' malinconica. Alla fine il sovrano lo rassicura e lo ringrazia del suo consiglio, che intende seguire. Il capitolo si chiude con un cicaleccio dove pare rifluisca dagli anni nel vecchio che racconta la rinata allegrezza del giovine crociato.
Confessiamo che sopra ogni mito o diletto, e ogni curiosa notizia del tempo, è questo lume dell'uomo eterno che noi vogliamo accogliere come il dono più bello che ci venga da uno storico.
È infatti per questi servi che nell'errore degli evi percorrono insieme il loro destino, e viene il giorno che la natura, vinta, sta per dividerli, e si ritrovano uni e si scambiano parole di simpatia, e insieme riprendono, confortati, il cammino; è per questo peso costante della dignità umana che la storia vuole il nostro perdono.
I - Al suo buon signore Luigi (1), figlio del re di Francia, per la grazia di Dio re di Navarra, di Sciampagna e di Brie, conte palatino, Giovanni, sire di Joinville, il suo siniscalco di Sciampagna, salute e amore e onore, e tutta l'opera sua.
Caro sire, vi faccio sapere che la regina vostra madre, che assai m'amava (e Dio gliene renda merito), mi ha caldamente pregato che le scrivessi un libro delle sante parole e delle buone opere del nostro re san Luigi; e io gliel'ho promesso, e con l'aiuto di Dio ho composto il libro in due parti. La prima parte dichiara come durante tutta la sua vita si condusse secondo Dio e secondo la Chiesa, e a profitto del suo regno. La seconda parte discorre delle sue gesta animose e dei suoi gran fatti d'arme. Sire, poiché sta scritto: «Incomincia con quel che è di Dio, ed egli ti aiuterà in tutti gli altri negozi», ho scritto per primo quanto riguarda le tre sopraddette cose, cioè il profitto delle anime e dei corpi, e il governo del popolo. E quest'altre cose ho scritto in onore del santo corpo, poiché da esse apparirà chiaramente come giammai laico dei tempi nostri visse così santa tutta la vita, dal cominciamento del regno fino al termine dei suoi giorni. Alla sua morte non assistetti; ma era presente il conte Pietro d'Alençon, suo figlio (che m'amava assai), e mi narrò la bella fine da lui fatta, e che troverete descritta al termine di questo libro. E mi pare non sia stato troppo d'averlo messo nel numero dei martiri, per le gran pene da lui sofferte durante la crociata nello spazio di sei anni che fui in sua compagnia, e altresì perché egli imitò nostro Signore per quanto è della croce. Ché se Dio morì sulla croce, altrettanto fece lui, essendo crociato quando a Tunisi mori.
Il secondo libro vi parlerà delle sue grandi imprese e dei suoi atti di valore, tali che quattro volte lo vidi arrischiare la vita (come udirete qui appresso) per risparmiare il suo popolo.
II - (I quattro atti di abnegazione sono riprodotti in seguito, nel corso della narrazione).
Dico adunque, mio signore re di Navarra, che ho promesso alla regina vostra madre (cui Dio rimeriti) di scrivere questo libro; e per mantenere la mia parola, l'ho scritto. E non vedendo nessuno che più giustamente possa averlo di voi che siete suo erede, io ve lo mando, acciocché voi e vostro fratello, e gli altri che leggeranno, vi cavino buoni esempi, e gli esempi mettano in pratica, sicché Dio gli sappia grado.
III - In nome di Dio onnipotente, io Giovanni sire di Joinville, siniscalco di Sciampagna, narro la vita del nostro santo re Luigi, ciò che vidi e udii per lo spazio di sei anni che fui in sua compagnia nella crociata d'oltremare, e poi che fummo tornati. E prima di raccontarvi le sue grandi imprese e le sue prodezze, vi racconterò quanto vidi e udii delle sue sante parole e dei suoi buoni precetti, acciocché seguano uno dopo l'altro a edificazione di quei che leggeranno.
Questo sant'uomo amò Dio di tutto cuore e ne imitò le azioni; e appare da questo: che come Dio mori per amor del suo popolo, lui per amor del suo popolo arrischiò più volte la vita; e non gli era forza se avesse voluto, siccome udirete qui appresso.
Il grande amore ch'egli portava al suo popolo manifestano le parole da lui dette al mio signore Luigi, suo figlio maggiore, durante una grave malattia che lo colpi a Fontainebleau: «Bel figlio, gli disse, ti prego di farti amare dal popolo tuo; ché veramente mi sarebbe più caro che uno scozzese venisse di Scozia e governasse bene e giustamente, che tu troppo male». Il santo re fu sì probo che neppure i Saraceni volle ingannare in quanto aveva loro promesso, siccome in seguito udirete.
Di bocca fu tanto sobrio, che mai un giorno lo intesi ordinare alcun piatto, siccome fanno i signori; anzi mangiava tutto ciò che i cuochi gli preparavano e gli mettevano davanti. Nel parlare, assai riservato: e mai un giorno lo intesi dir male d'alcuno. Né giammai lo intesi fare il nome del diavolo, il quale nome è troppo spesso in bocca al suo popolo: e credo che non piaccia al Signore.
Il vino, secondo che poteva comportare, per gradi annacquava. A Cipro mi domandò perché anch'io non facevo cosi; e io gli dissi che me lo permettevano i medici, i quali asserivano ch'essendo io forte di testa e avendo lo stomaco freddo, non rischiavo d'ubriacarmi. E lui disse che si sbagliavano: e se non imparavo a fado da giovane e da vecchio lo annacquavo, mi prenderebbe la gotta e il mal di stomaco, e non avrei più salute; e se da vecchio lo bevevo puro, sarei ogni sera ubriaco; il che non s'addice a un uomo dabbene.
Mi domandò se volevo essere onorato in vita e meritarmi il paradiso in morte; e io gli risposi, si. E lui mi disse: «Dunque guardatevi dal fare o dir cosa in coscienza, tale che, da altrui risaputa, non possiate riconoscerla: così ho usato io nel fare e nel dire». Aggiunse che mi guardassi dallo smentire o contraddire nessuno quando non avessi a soffrirne danno o peccato, poiché da acerbe parole muovono le contese onde migliaia d'uomini son morti.
Diceva che non bisogna vestirsi e armarsi in tal guisa che paia troppo agli anziani, ai giovani troppo poco. E questa cosa richiamai al padre (2) del re di adesso, per via delle cotte d'arme ricamate che usano oggi; e gli dicevo che mai durante la crociata oltremare avevo visto cotte ricamate, né al re né ad altrui. E lui mi disse d'aver certe acconciature ricamate dell'armi sue che gli era n costate ottocento lire parigine. E io dichiarai che le avrebbe meglio spese donandole per Dio e facendo le sue acconciature di buon taffetà guarnito dell'armi sue, come suo padre faceva.
IV - Mi chiamò una volta e mi disse: «Non oso parlare a voi (che siete tanto sottile) delle cose di Dio; e però ho chiamato questi due frati: voglio farvi una domanda.» La domanda era questa: «Siniscalco, mi disse, che cosa è Dio?» E io gli dissi: «Sire, è cosa sì buona che meglio non può essere.» «Veramente, fece lui, è ben risposto; e tale risposta è scritta in questo libro che ho in mano. Ora vi chiedo, aggiunse, cosa vi piacerebbe di più, esser lebbroso o aver commesso un peccato mortale?» E io, che non gli mentivo giammai, gli risposi ch'anzi trenta vorrei averne commessi che esser lebbroso. I frati partiti, mi chiamò solo a solo, e fattomi sedere ai suoi piedi mi disse: «Come mai ieri avete potuto dire tal cosa?» E io sostenni che la dicevo ancor oggi. E allora lui: «Voi parlate da stolto; dovete sapere che nessuna lebbra è si laida come d'essere in peccato mortale, poiché l'anima che trovasi in peccato mortale è simigliante al diavolo. Ed è ben vero che quando uno muore è guarita dalla lebbra del corpo; ma quando uno muore avendo commesso un peccato mortale, non sa con certezza se ha avuto tal pentimento che Dio l'abbia perdonato: deve aver gran paura che quella lebbra gli duri finché Dio sarà in paradiso. Perciò, quanto posso, vi prego di mettervi in cuore, per l'amor di Dio e mio, d'amar più qualsiasi flagello di corpo, o lebbra o altro malanno, che non il peccato mortale.»
Mi domandò se lavavo i piedi ai poveri il giovedì santo: «Alla malora, sire, ch'io lavi i piedi di quella gentaglia!» «Veramente, fece lui, ciò è assai mal detto; non dovete mica avere a schifo quel che Dio fece per ammaestramento nostro. Anzi, vi prego, per l'amor di Dio anzitutto, e poi per amor mio, che vi accostumiate a lavarli.»
V - Fu tanto amico di chi credeva in Dio e lo amava, che fece conestabile di Francia il mio signore Gilles il Bruno (il quale non era del regno di Francia) per esser costui in fama di credere e amar Dio. E io stimo che veramente fu tale.
Maestro Roberto di Sorbon (3) avendo nome d'uomo savio, mangiava alla sua mensa. Un giorno avvenne che sedendo accanto a mensa, si parlava a bassa voce fra noi. E lui ci riprese e ci disse: «Parlate forte: i vostri compagni possono credere che dite male di loro: se voi parlate, a tavola, di cosa che piaccia, alto parlate; o se no, state zitti.»
Quando era in buona, mi diceva: «Siniscalco, or ditemi un po', perché savio val più che devoto?» Allora cominciava la tenzone fra me e maestro Roberto. A vendo noi a lungo disputato, così egli ci manifestò la sua sentenza: «Maestro Roberto, vorrei ben avere nome di savio, ed esserlo, e tutto il resto lo lascio a voi;...
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