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La Famiglia che raggiunse Cristo

LA FAMIGLIA CHE RAGGIUNSE CRISTO

di M. RAYMOND o. c. s. o

INTRODUZIONE

La Madre Superiora posò con dispetto il libro che stava leggendo. Era una “Vita di San Bernardo di Chiaravalle”. Quindi in tono di disgusto disse:

— Quest'autore lo butterei giù dalla finestra!

Suo, fratello la guardò incuriosito, strizzando l'occhio. — Eh via, Madre Superiora, che linguaggio è questo e con che tono! Dimmi, cosa c'è che non va in quel libro?

— L'autore tratta di un santo dì Dio, e parla di tutto fuorché della sua santità; raccoglie le stranezze dell'infanzia e le stravaganze del noviziato di S. Bernardo e le descrive come se fossero degli atti eroici di santità. - Senti questo: - e riprendendo il libro, ne sfogliò alquante pagine, poi lesse: “La sua eroica modestia degli occhi era tale che, alla fine del suo anno di noviziato, non sapeva dire quante finestre c'erano nella cappella”. Che scempiaggine! Chi saprebbe dirlo? Io sono stata novizia due anni; per altri ventidue anni ogni estate sono tornata al noviziato, e ancora non saprei dirti quante finestre ci sono nella nostra cappella. Nessuno però mi attribuirà una modestia di sguardi eroica, e penso che nessuno pure penserà a canonizzarmi. Per lo meno - soggiunse ridendo - non ancora.

— No! - confermò il fratello, - per ora certamente no. Ma via, non li pare troppo poco per condannare lutto un libro? Ammetto che troppi autori di vite di santi, non conoscendo intimamente la vita religiosa o la vita spirituale, commettano simili spropositi; ma vuoi mettere nel tuo "Indice" questo libro unicamente per questa sciocchezza?

— Oh, ma è solo un esempio! - ribalte la Religiosa. -È tutto il libro che non va. Dice quello che Bernardo ha fatto, non quello che era.

— Ah! ma, Sorella mia, - replicò suo fratello, - non devi mai dimenticare la tua filosofia: “Agere sequitur esse”. Dimmi quello che un uomo o una donna fanno e ti dirò chi sono.

_              No, non me lo dirai! - ribatté prontamente la Suora. - Fin tanto che la natura umana sarà natura umana, sempre ci saranno Scribi e Farisei, Pubblicani e Peccatori; e col conoscere solamente quello che fanno, non potrai mai sapere quello che sono. Perché, se leggo bene nel Nuovo Testamento, molti degli Scribi e dei Farisei erano grandissimi peccatori, mentre alcuni dei Pubblicani e Peccatori diventarono veri Santi. Vedi, Padre, a troppi autori sfugge il vero concetto della santità. Ne scrivono come se fosse qualche cosa di esteriore: parlano delle meraviglie compiute dai Santi, parlano senza fine dei miracoli operati da loro, supponendo sempre che furono santi a motivo di quei prodigi.

_              Ma, Sorella, non ammetti che i miracoli sono il sigillo dell'approvazione divina?

— Certo che l'ammetto. Ma cerca di capire il mio pensiero! Voi teologi risolvete tutta la questione col fare una netta distinzione tra “gratiae gratis datae” e “gratiae gratum facientes”. E traducendo in parole povere, io dirò che i miracoli possono mostrarmi il santo, ma non mi dicono com'egli è diventato santo: ed è questo ciò che io voglio vedere. Non è il processo terminato, quello che m'interessa, ma il processo stesso; perché, sai bene, il mio compito non è essere santa, ma diventare santa. Se pure questo non ti sembra troppo paradossale!

— Affatto - rispose il fratello. - Comprendo anche il tuo pensiero rispetto ai miracoli.

— Sai, Padre, ogni volta che leggo un libro tutto pieno di miracoli, mi vien voglia di scrivere all'autore e contargli la storia di un vecchio predicatore di Esercizi, un uomo fine e arguto e profondamente versato in Teologia. Parlando proprio di questo, egli ebbe a dire che, se i miracoli fossero l'unica prova della santità di uno, si arriverebbe alla conclusione che l'asina di Balaam fu una santa più grande di S. Giuseppe o della Madonna. L'asina infatti fece qualcosa di miracoloso. Essa parlò. Mentre di S. Giuseppe o di Maria non si legge che facessero alcun miracolo. Però il saggio predicatore soggiungeva: “Ad ogni modo io sono pienamente convinto che il fatto miracoloso non cambiò l'asina di Balaam; essa restò quella che era”.

Il fratello rise di cuore; quindi osservò: - Sorella, non t'ho mai vista così eccitata. Sei eloquente, pronta, scintillante. Dimmi dunque che specie di vita di santo ti piacerebbe.

— Una che dica la verità, con tutta verità. Una biografia che mostri l'uomo che diventa santo, non santo già fatto. Una che mostri come egli si modellò su Cristo, non sulle astruserie di una scuola di agiografi. Sai che cosa significa questo, Padre? Significa: mostrami un santo che fu umano! Gesù Cristo lo fu. Oh, quelle biografie che fanno consistere il soprannaturale nell'innaturale! Dio perdoni a quegli autori! Hanno fatto un mondo di male. Voi teologi non dite forse che “la grazia non distrugge la natura, ma la perfeziona?”

— Sì.

— Allora perché tanti autori dipingono i loro personaggi impegnati in nient'altro che nel “distruggere le loro passioni” e “nell'annientare se stessi?”

— Ma, Sorella, dobbiamo pure fare penitenza e purificarci!

— A me lo vieni a dire? In noviziato non ci sforzavamo di distruggere una passione al giorno? — Certo - rispose il fratello ridendo. - Era la pratica del noviziato.

— Fu la cattiva pratica del noviziato, vorresti dire? - ribatté la Madre Superiora. - Essa fu introdotta precisamente in conseguenza di biografie simili a quella di cui stiamo discutendo. Quando poi scoprimmo che le nostre passioni non restavano distrutte, ma ch'erano peggio del fantasma di Banquo, e avevano molte vite come i gatti, non disperammo allora di riuscire a farci santi?- E in quanto all'annientamento di sé, Padre, sta' a sentire: io solevo fare novene per ottenere questo annientamento. Le facevo con sincerità, prima di ogni festa grande. Ma quando studiai un po' di filosofia e qualcosa di teologia, quando imparai l'identità tra l'io e l'anima, l'incomunicabilità della nostra personalità individuale e la immortalità della nostra anima personale, allora cominciai a rendermi conto della sterilità delle mie novene, delle assurdità di molti scrittori di ascetica confusionari, e della vera sapienza dì S. Francesco di Sales.

— Sarebbe a dire? - domandò suo fratello.

— Egli diceva, in sostanza che l'io morirà solo un quarto d'ora dopo che siamo morti noi; e a me qualche volta, viene in sospetto che quel calcolo sia ancora inferiore al vero. Io ritengo come certo, che l'io morrà tre giorni dopo che noi siamo già nella tomba; ogni altra opinione, per conto mio, è semplicemente probabile.

— La tua opinione, Sorella, è buona; ma finora mi hai detto soltanto quello che non vuoi nella vita di un santo; non mi hai ancora detto cos'è che ci vuoi trovare.

— Scusami, ma sembra che tu faccia apposta a stuzzicarmi. Tuttavia, dal momento che anche tu pretendi di esser qualcosa come uno scrittore, ti sfido. Scrivimi la vera vita d'un santo; e pongo tutta l'enfasi sulla parola “vera”. Dammi la vita intima d'un grand'uomo, che è diventato un gran santo. Dimmi che cosa s'andava agitando nella sua anima mentr'egli s'apriva faticosamente la via, che, dall'egoismo e dalle attrattive, del peccato, l'avrebbe condotto al Grande Cuore di Dio. Fa' anche della lirica, se vuoi, ma non contarmi nessuna leggenda. Dì le cose bellamente, certo! Ma non venirmi fuori con stravaganze o sfoghi di sentimentalismo bolso. Sii facile e popolare nel tuo stile, pur mantenendo sempre una certa dignità. Sii anche sufficientemente elevato a fine di essere genuinamente buono. Sii sempre accurato, ma non mai pedante. Racconta la vera storia d'un uomo che sì fece santo, e raccontala con un fascino che s'impossessi di me fin dal principio e mi tenga incatenata sino alla fine. Per questo, fa che il tuo personaggio sia soprannaturale, ma non innaturale; saggia tutti i suoi atti sulla pietra di paragone della più autentica teologia, della sana filosofia e soprattutto della vera psicologia umana. In altre parole, fratello mio, dì la verità!. Fa in modo che il tuo  lavoro non sia causa di delusioni; non permettere ch'io abbracci ingenuamente quello che. tu scrivi, soltanto per poi accorgermi, nell'età matura, d'aver stretto un'ombra, d'essermi afferrata ad un fantasma. Fa che il tuo santo sia per me una ampia strada maestra verso la Divinità. Non m'importa quanto sia lunga, faticosa o ardua, purché mi conduca a Dio. Ma, ti prego, non indicarmi dei sentieri secondari che, se sono invitanti e piacevoli, non portano però che ad un pietismo sentimentale.

 

Era un compito tremendo quello in cui tu m'impegnasti, Suor Maria Clara; ma ho cercato di far del mio meglio. Se questo lavoro ha qualche merito, lo si deve a te. Io mi tengo le manchevolezze.

Voglio solo darti un avvertimento. Ed è questo: Non lasciarti ingannare!

A causa dello stampo in cui l'ho fuso, questo libro può sembrare un romanzo; ma non lasciarti ingannare. Esso è storia! I fatti sono fatti. Molte parole sono parole testuali di Bernardo estratte dai suoi sermoni o dalle sue lettere. Ho drammatizzato molto; poco o nulla ho inventato. Perciò prendilo così com'è in realtà: una storia perfettamente degna di fede.

Potresti chiedermi: perché allora tale forma di narrazione? La mia sola risposta è che abbiamo avuto gran copia di romanzi storici, come pure di romanzi biografici; quindi perché non avere anche qualche storia romanzata in una biografia romanzata? Questa famiglia visse realmente! Perché allora non rappresentarla come viva? Inoltre dato che è solo nella tua vita quotidiana e mediante la tua vita quotidiana che arriverai a farti santa, dovevo offrirti un modello sicuro. Sono certo che tu ed io e tutti noi possiamo imparar molto da questo “viver quotidiano” della famiglia di Bernardo. Essa ci mostra come possiamo soprannaturalizzare il naturale. Che famiglia!

Da ultimo, ricordati che io ti ho dato solo degli schizzi, non dette vite complete. Bernardo da solo esigerebbe un volume doppio di questo! Ma spero che questi schizzi ti soddisferanno ed inciteranno. Io non m'ero mai imbattuto prima in una tale famiglia; sono sicuro che anche tu godrai della presentazione che te ne faccio.

 

FR. M. RAYMONDO, O.C.S.O.

 

 

 

Natività di Maria SS. 8 settembre 1942


PARTE I: I GENITORI

IL GRAN VECCHIO GUERRIERO

 

LA LANCIA SPEZZATA

— Che t'e successo? Hai un muso lungo una lega. Continui a borbottare da solo e a rovinare la punta d'un bel paio di stivali a furia di tirare calci all'immondizie. Che cos'hai?

— Oh, niente! Niente! Niente! Vattene e non seccarmi. – E Gerardo di Fontaines si girò bruscamente sui tacchi e fece per andarsene.

— Un momento! Non scappare, bello mio! - disse Guido, il fratello maggiore, allungando la mano e afferrando Gerardo per una spalla. - Il mozzo mi ha detto che quando sei arrivato, il tuo cavallo era madido di sudore, e tu sei saltato di sella e sei scappato via senta proferir parola. Sei già abbastanza grande per sapere che non è questa la maniera di trattare una bestia, ed io sono abbastanza vecchio per capire che tu hai qualcosa per traverso. Buttala fuori. Che cosa t'è capitato?

— Anche tu l'avresti qualche cosa per traverso, se avessi visto quello che ho visto io poco fa.

— E che cos'hai visto?

— Ho visto nostro padre diportarsi come un codardo.

Guido allibì, i suoi occhi si rimpicciolirono, la sua bocca si contrasse e il labbro superiore ebbe un tremito. Quindi, a denti stretti, sibilò: - Se non fossi mio fratello, ti strangolerei, per quel che hai detto. Su, spiegati!... Spicciati, se no ti prendo a botte.

Gerardo si dimenò. cercando di svincolarsi dalla stretta delle mani di suo fratello; la sua faccia era accesa e i suoi, occhi lanciavano fiamme.

— Picchiami! - disse. - Su, avanti, picchiami! Non mi importa nulla di ciò che mi possa capitare ora. Mi sento profondamente avvilito e pieno di vergogna fin nel più intimo dell'anima. Anche tu proverai la stessa cosa, quando saprai la terribile verità. Ma non te la dirò, Le parole mi muoiono in gola.

E con una mossa brusca del braccio tentò di nuovo di svincolarsi dalla mano di Guido, che lo stringeva per la spalla destra. Ma Guido ora reagì energicamente e, facendo girare su se stesso il fratello, che continuava a dimenarsi, si chinò su di, lui e ficcando i suoi occhi in quelli di Gerardo, gli gridò:

— Se non me lo dici, ti strozzo. Che cos'ha fatto nostro padre?

Negli occhi di Gerardo spuntarono lacrime; erano lacrime di rabbia. - Si è diportato come un codardo! mugolò fremendo.

Guido lo scosse violentemente, ripetendogli con un tono che non ammetteva repliche:

— Gerardo, se lo, ripeti un'altra volta, ti spacco il muso.

Poi, stringendolo per le spalle con tutta la forza delle mani, quasi volesse stritolarlo, ripeté:

— Su, contami questa storia.

Gerardo gemette sotto la stretta delle mani nerborute del fratello che l'agitavano come una foglia, mentre le lacrime gli solcavano la faccia contratta dallo spasimo.

— Nostro padre non ha voluto battersi in duello; - disse - e ha stretto la mano al suo avversario. Siamo disonorati!

Guido ebbe un sussulto e rimase con gli occhi, spalancati e la bocca semiaperta. Indi, come stordito, mormorò:

Nostro padre non ha voluto battersi? Gerardo, che cosa stai dicendo? E' mai possibile? Spiegati meglio.

La sua voce s'era fatta supplichevole. Non era più il fratello maggiore adirato, ma un povero essere atterrito e ansiosamente implorante.

— Ah, Guido, non so spiegare quel ch'è avvenuto! gemette Gerardo. - L'altro giorno sentii gli scudieri che bisbigliavano tra loro e dicevano che nostro padre era stato sfidato a duello. Fiutai intorno, finché non, venni a conoscere il luogo e l'ora dell'incontro. Oggi m'internai nel bosco, là dove Alfredo, sai, ha la sua capanna, e mi nascosi nel folto degli alberi. Sapevo che il mio cavallo sarebbe rimasto quieto; non, tardarono, molto, a venire: c'era nostro padre coi suoi due padrini e un cavaliere sconosciuto coi suoi. Nostro padre avrebbe potuto annientarlo col solo suo sguardo. Invece che fece egli? Che fece il grande Tesselino Barbabruna, il Consigliere del Duca,e uno dei nobili più stimati del Ducato? Che fece nostro padre? Mio padre... Mi sentii Guido? Mio padre stese la destra, rivolse alcune tenere parole a quel miserabile cavaliere, chiunque egli sia - io stesso l'avrei potuto battere! - e gli strinse la mano. Poi s'incamminarono ambedue verso la capanna e lì firmarono delle carte. Vidi quel cavaliere allontanarsi a cavallo. Io avrei voluto inseguirlo e strangolarlo; e sento che sarei stato capace di farlo. Ma ero così pieno di vergogna che mi volsi indietro per non vederlo neppure, e, saltato in groppa al mio cavallo, galoppai verso casa, senza farmi notare. Guido, Guido! Come potremo farci vedere ora nel Ducato? Nostro padre un codardo!

Guido, a quella frase che già l'aveva terribilmente irritato, lasciò andare un manrovescio sulla bocca di Gerardo. Il colpo fu secco e violento; lo colpì nel labbro superiore e gli fece uscire sangue dai denti. Gerardo era più stupito per il fatto che suo fratello l'avesse picchiato, che non offeso per il dolore dello schiaffo in sé. Intontito, stette a rimirarlo con la bocca aperta, mentre il sangue gli colava giù sul mento.

Appena Guido vide il sangue, mise il suo braccio attorno al collo di Gerardo e, stringendoselo vicino, mormorò affettuosamente:

— Oh! mi dispiace, Gerardo. Me ne dispiace proprio, è stato un moto involontario, un colpo del tutto impensato e istintivo. Perdonami, te ne prego. Però non dire mai più tal cosa di nostro padre. Egli non è un codardo. Non può esserlo, assolutamente. Non vi sono codardi nella guardia del Duca; e nostro padre vi appartiene da prima ancora che tu ed io nascessimo. Io non so quello che sia avvenuto oggi nel bosco. Credo alle tue parole. Sarà anche vero che nostro padre non si è battuto; ma non so perché non abbia voluto battersi. Ci dev'essere un qualche motivo. Abbi fede in lui. Mi vergogno per te, che hai potuto avere un tale sospetto. Ma tu mi perdoni quello schiaffo?

— Uhmm! - mugolò Gerardo. - Credi che uno schiaffetto abbia qualche importanza? Non é nulla. Eppure io ho proprio visto coi miei occhi quello che è avvenuto nel bosco. Nostro padre non ha voluto battersi.

Le labbra di Guido si serrarono nuovamente, e così pure i suoi pugni.

— Gerardo, - disse, - io... - Ma non poté finire la frase, perché, proprio in quel momento, alla svolta della strada comparve il padre che veniva dalla scuderia. Questi si fermò di scatto, notando lo strano atteggiamento dei suoi figli, e gettando un rapido sguardo su tutt'e due, chiese:

— Che succede qui?

Era una domanda spontanea, fatta con voce tranquilla e naturale, ma Guido vi notò un senso di apprensione. Fissò suo padre più attentamente e notò in tutto, il suo portamento una specie di spossatezza: le rughe della fronte erano marcate e profonde, gli occhi infossati, le labbra apparivano smunte e le guance un po' incavate. Guido restò atterrito; lo guardò più attentamente ancora e gli sembrò che suo padre fosse invecchiato e tremendamente stanco. Quindi con un leggero sospiro disse:

— Penso che dovremmo essere noi a domandarvelo papà. Che cosa vi è accaduto? Sembra che vi sentiate poco bene.

A tali parole il Signore di Fontaines si drizzò nella persona, eresse la testa che teneva un po' china e serrò le labbra, prendendo un'espressione risoluta. Tornava ad essere il guerriero intrepido, dal dominio perfetto di sé; però lo sforzo era stato evidente. Senza rispondere a Guido, guardò Gerardo, il quale voltò la faccia, affettando indifferenza.

— Gerardo disse - che succede?

— Niente! rispose asciutto il figlio, mentre nervosamente allontanava col piede le pietre sparse per terra..

— Guarda qui e rispondi... - poi si. fermò di colpo scorgendo sul mento di Gerardo, che nel mentre s'era voltato, le tracce eloquenti dei sangue. - Avete litigato? - esclamò.

— No papà, non proprio litigato - intervenne Guido. Sono stato io a picchiarlo sulla bocca; ma è stato un colpo involontario. Egli mi ha già perdonato.

— Ma perché l'hai picchiato?

— Preferirei che ve lo dicesse lui stesso, babbo.

Tesselino fissò Gerardo, il quale, invece di rispondere, si fece rosso in faccia. Il padre attese un po'; il silenzio diventava imbarazzante. Guido s'andava appoggiando, or su un piede or su l'altro, Gerardo continuava a tirar calci ai sassi, col volto sempre acceso, mentre il padre osservava or l'uno or l'altro e si stupiva sempre più del loro comportamento.

— Su, andiamo! esclamò finalmente. - Non è questo il modo di agire dei miei figli.

— Ebbene, papà, - disse Guido - Gerardo ha detto una cosa di voi...

— Oh! - interruppe il padre. - Cosicché sono io la causa di tutto questo? Che cos'ha detto di me?

— Ecco, - rispose Guido molto indeciso - ha detto che voi non avete voluto battervi...

Gli occhi di Tesselino si serrarono di colpo. Fu come se gli avessero dato uno schiaffo. Impallidì e alfine chiese:

— Con chi non ho voluto battermi?

— Questo non l'ha saputo dire; dice ch'era un cavaliere sconosciuto...

— Gerardo, - interruppe e il padre - ti trovavi nel bosco oggi?

La domanda era greve di tristezza.

— Si, c'ero - fu la scottante risposta. - C'ero e ho visto tutto; ed ho detto a Guido che voi vi siete diportato da codardo.. Per questo egli mi ha dato un ceffone.

Tesselino sembrò barcollare. Il suo viso divenne smorto. I muscoli della faccia si contrassero e i denti si strinsero. Poi, con un profondo sospiro, mormorò:

— Ci saranno altri che diranno la stessa cosa.

Quindi accostandosi a Gerardo gli mise con tenerezza il braccio intorno al collo e, asciugandogli il sangue che gli usciva dalla bocca: - Figlio mio, - disse - desidero che tu mi voglia sempre bene, come in questo momento, e che tu sia sempre così franco e leale come adesso: E’ precisamente questa tua lealtà e profondo amore ciò che Guido prende per slealtà ed è pure la sua lealtà e il suo amore ciò che lo spinse a colpirti. Mi dispiace che oggi tu ti sia trovato nel bosco; e più ancora mi dispiace che tu ne abbia parlato. Ma quello che è stato è stato. Venite tutt'e due nel mio studio e ve ne spiegherò il perché. Cercherò d'insegnarvi ad entrambi che c'è una lealtà più profonda e un amore più grande.

In silenzio, i tre si volsero e dal cortile si diressero verso l'abitazione; in silenzio attraversarono l'atrio e salirono le scale; in silenzio ancora entrarono nello studio di Tesselino. Quando questi ebbe chiuso accuratamente l'uscio, indicò ai figli due sedie; poi, allungando una mano, staccò dalla parete una lancia spezzata. - Quindi,: avvicinandosi a Gerardo, gliela mise tra le mani e domandò:

— Sai quando questa lancia si spezzò e come?

— Si, babbo, lo so - fu la pronta e sicura risposta. Gerardo non aveva perduto ancora nulla della sua eccitazione.

— Allora tu saprai, figlio mio, come, a causa di, questa lancia, io quasi perdetti la vita; e che, se quest'asta non si fosse spezzata, essa sarebbe penetrata nel mio petto e mi avrebbe trapassato il cuore. Questo è l'unico trofeo che conservo dì tutte le battaglie alle quali presi parte, E sai perché?

— No, babbo! Questo non lo so.

Gerardo si calmò un tantino dopo questa risposta; ma il tuo volto tradiva ancora la forte emozione.

— Tu lo sai, Guido?

— No, babbo, non lo so nemmeno io; però me lo sono domandato tante volte. Voi siete uscito vincitore da innumerevoli combattimenti, eppure non conservate come ricordo che questa lancia, per la quale quasi ci rimettevate la vita.

— Precisamente; ed è l'unico trofeo che sempre conserverò. Questa lancia spezzata mi ricorda che devo essere riconoscente a Dio. Mi son trovato tante volte in faccia alla morte, come ben sapete; ma se in quel giorno memorando quest'asta non si fosse spezzata, io mi sarei trovato davanti a Dio d'improvviso. E se avessi dovuto comparirGli davanti in quel momento, temo che mi sarei trovato con le mani vuote. Cosicché questa lancia è un monito per me. Essa mi dice che un giorno dovrò pur presentarmi davanti al Signore e che non mi devo far cogliere con le mani vuote. Essa mi dice che devo essere grato per il dono della vita; ricordandomi quanto sono stato vicino alla morte, la custodisco come un tesoro solo perché misericordia l'infinita misericordia di Dio a mio riguardo. Mi hai seguito, Gerardo?

— Sì - rispose secco e con voce alterata Gerardo, ch'era ancora lontano dal rabbonirsi.

— Bene, figlio mio! - riprese Tesselino. - Ora voglio che tu guardi ad un altro Uomo, sul cui costato pure si puntò una lancia; questa volta però esso non si spezzò, ma penetrò e raggiunse il Cuore.

Mentre parlava, Tesselino staccò dalla parete un gran crocifisso, e lo mise sotto gli occhi di Gerardo. Il ragazzo alzò lo sguardo quasi timoroso. Suo padre non aveva mai parlato, davanti a lui, con tanta solennità come allora. Anche Guido era profondamente impressionato, perché, quantunque egli fosse il figlio maggiore e il primogenito, non aveva visto mai suo padre in un simile stato d'animo.

Tesselino Barbabruna era un uomo capace di grandi emozioni; ma le sapeva anche occultare profondamente. Era conosciuto come il sereno e sempre affabile Signore di Fontaines, il cui ardore si manifestava solo nella battaglia.

Difatti, quando più tardi Barbabruna si fece monacò, la metamorfosi riempì tutti d'enorme stupore; nessuno infatti aveva mai saputo che il più stimato consigliere del Duca di Borgogna era un uomo che aveva lottato con se stesso per ottenere il dominio delle più profonde e violente passioni della sua anima.

In quel momento, in piedi, davanti ai suoi due figli indicando la ferita del costato di Cristo, egli manifestava più sensibilità di quanta mai essi erano riusciti a scoprirne in lui in tutti gli anni della loro vita, ancorché Guido avesse diciotto anni e Gerardo sedici.

— Figlio mio, - proseguì il padre - guarda spesso questa piaga e lascia ch'essa ti parli. Essa ti dirà che c'è una vittoria più grande del vincere un nemico armato; che c'è un nemico più difficile da superare di quello che ti viene contro dal di fuori, vestito di ferro e armato d'acciaio; che c'è una battaglia più dura di quella che si combatte in campo aperto. Tu hai detto che io oggi non ho voluto battermi in duello con un cavaliere sconosciuto. Hai detto il vero, figlio mio. Sì, non ho voluto battermi: E la ragione del mio rifiuto sta tutta qui.

E così dicendo gli presentò il crocifisso:

— Hai detto che mi sono diportato da codardo. Spero che in questo ti sia ingannato, figlio mio. Il mio avversario era appena degno del mio acciaio. Non fu la paura di quell'uomo, Gerardo, che mi spinse a stendergli la mano dell'amicizia, ma soltanto l'amore del mio Dio. Sì, figlio mio, lascia che ti ripeta che c'è una vittoria più grande che abbattere un nemico armato; e lascia ch'io insista ch'essa costa assai di più. Cominci a capire, adesso?

— Sì, papà, capisco - intervenne Guido. - Voi avete perdonato al vostro nemico per amore di Cristo.

— Precisamente, figlio mio; per amore di Cristo. E tu Gerardo, comprendi?

— No! - rispose il figlio minore. - Un duello è un giudizio davanti a Dio. Avrei preferito che vi foste battuto.

Tesselino trasse un profondo sospiro, e tornò ad appendere il crocifisso alla parete. Lo contemplò per un istante amorosamente; poi prese la lancia dalle mani di Gerardo e la ricollocò accanto al crocifisso. Quindi, rivolto al figlio, disse:

— Capirai un giorno, Gerardo; ma fin tanto che non spunti quel giorno, non dimenticare mai che Cristo non discese dalla Croce, nonostante gli scherni dei suoi nemici che gli rinfacciavano la sua impotenza, come prova che Dio l'aveva abbandonato. Mi dispiace, figlio mio, d'averti così profondamente ferito quest'oggi: col mio modo d'agire, e come balsamo alla tua ferita, ti do il permesso d'entrare in questo studio in qualsiasi momento, così che tu possa contemplare questa Croce e la mia lancia spezzata. Esse possono ancora insegnarti quella lezione che io non son riuscito a farti comprendere.

Gerardo balzò dalla sedia e si gettò tra le braccia di suo padre.

— Oh, papà, - esclamò singhiozzando - papà, vi credo! Mi fido di voi! Vi voglio bene! Ma perché, perché non vi siete battuto?

Tesserino mise dolcemente la mano sulla spalla del ragazzone sorrise mestamente. Quel sorriso era un pò triste, perché a Tesselino dispiaceva la delusione data a quel figliolo e perché simpatizzava pienamente con quel cuore tempestoso d'adolescente, che voleva esser leale, anche se non era ancora capace di rinunciare alle sue idee preconcette.

— Su, figliolo - disse alfine, dopo d'aver lasciato che il risentimento di Gerardo s'esaurisse da sé, nello sfogo

— Tua madre non deve saper nulla di quan...

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